IL VALORE DEL LAVORO
AL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE di Domenico Proietti*
– Oggi è lecita la domanda: la Repubblica italiana è ancora fondata sul lavoro?
Non è una domanda retorica. Alcuni dati dimostrano che oggi questa affermazione costituzionale è duramente messa alla prova. La disoccupazione nel nostro Paese è infatti all’11,7%, quella giovanile in particole è al 39,1%, su tutto il mondo del lavoro vi è una tassazione tra le più alte di tutte le democrazie occidentali, pari al 41,8%. Questi dati dimostrano come il lavoro, il valore del lavoro, in questi anni è stato profondamente svalutato in Italia e in tutte le democrazie occidentali. Si è affermata l’idea che si potessero fare i soldi con i soldi lasciando totale spazio alla finanza rapace e creativa che ha illuso per un lungo periodo di poter dare una risposta a tutti i problemi.
Dalla drammatica crisi di questi anni viene la lezione di riproporre nella sua interezza il valore del lavoro.
Bisogna oggi ricreare un’etica del lavoro che riporti il cittadino al centro della Res Publica, il lavoratore al centro della produzione, abbandonando la via che ci ha portato a confondere le persone con i consumatori ed il prodotto con il profitto.
Le radici della crisi dalla quale lentamente incominciamo ad uscire sono profonde e radicate nella nostra struttura sociale, ma il motivo scatenante può essere ben identificato nella rottura dell’equilibrio all’interno dei singoli stati nazionali tra capitalismo e democrazia a seguito dell’affermazione del “capitalismo globale” o super capitalismo, come lo definisce Reich.
La globalizzazione ha spostato l’area di decisione dalla sfera democratica a quella capitalistica. Gli stati ne risultano indeboliti e depotenziati ed abbandonano il ruolo di sorveglianza del mercato. Le rigidità imposte dai governi come reazione alla crisi, sono un esempio lampante, di governi sottoposti al “giudizio del mercato”. Ulteriore prova è il proliferare di paradisi fiscali e di accordi per attirare capitali con la conseguente deregolamentazione che ha ingenerato una diffusa sregolatezza fiscale.
Questa crisi ha origine negli anni 80, quando l’economia occidentale si è aperta ai mercati più concorrenziali spostando, di fatto, il potere dai cittadini ai consumatori e agli investitori. Nella nostra visione l’essere consumatore deve qualificare l’individuo solo come un aspetto della sua vita, mentre è l’essere cittadino che lo qualifica come soggetto depositario di diritti e doveri sociali, economici e politici.
Ora, è evidente a tutti noi che il capitalismo finanziario globalizzato si riproduce, come notano i teorici dell’economia contemporanea, solo eliminando tutto ciò che non è scambiabile attraverso meccanismi di mercato, riducendo quindi ogni rapporto sociale a scambio, secondo logiche progressive di esclusione e di consolidamento delle sperequazioni.
Il capitalismo globale riduce le differenze fra i vari paesi nutrendosi della cancellazione dello spazio fisico, ma aumenta enormemente le disuguaglianze interne, e con esse l’insicurezza e la paura del futuro, dilagando in quei contesti, come in gran parte del sud-est asiatico, in cui non c’è democrazia.
Gli stati arretrano continuamente dal loro ruolo e non esercitano un’azione regolatrice dei rapporti economici, fondamentale per garantire un corretto ed equo funzionamento del mercato. Si afferma come unica regola la lex mercatoria di cui ha parlato Guido Rossi in un suo bel saggio.
La concorrenza senza regole, propria del capitalismo globale, mina dunque le basi della democrazia.
C’è poi un altro elemento che contribuisce a tutto ciò: l’assenza di regole a livello internazionale che garantiscano e disciplinino la distinzione dei ruoli tra proprietà degli assetti produttivi, banche e finanza.
Tale grave deficit di democrazia può essere colmato solo ridefinendo l’intero sistema. È l’insieme del capitalismo globale, società per azioni, banche e mercati finanziari, che necessita di un legislatore sovranazionale, in altre parole di una global governance.
La sfida che ci si presenta davanti è quella di creare un nuovo equilibrio su scala globale tra capitalismo e democrazia. Per conseguire questo obiettivo bisogna necessariamente costruire un’Europa politica che sappia meglio governare i processi economici e incidere nella globalizzazione.
Esiste, però, un’importante connessione che lega i processi di finanziarizzazione del capitale e quelli di “democratizzazione” dei sistemi istituzionali soprattutto nelle entità sovranazionali quale quella europea. Questa connessione è tanto più evidente se si concepisce la democrazia nella sua determinazione di un complesso sistema istituzionale che, in nome e per conto dei cittadini, interviene tramite il potere pubblico e politico sulla ridistribuzione della ricchezza sociale prodotta.
I processi di globalizzazione dell’economia necessitano di risposte innovative, e della ricerca di un diverso equilibrio tra gli attori sociali, economici e politici. In questo quadro è necessario impegnarsi per l’affermazione di un sindacato europeo che sappia dialogare con i livelli di governo sovranazionali.
Nella discussione contemporanea su questi temi ci convince l’analisi di Giulio Sapelli, quando colloca l’azione della rappresentanza sindacale sul terreno della proposizione in un confronto dialettico con gli imprenditori e con la Pubblica amministrazione, riconoscendo anche che proprio in questa direzione si è evoluta negli anni molta attività sindacale.
Oggi alcuni settori imprenditoriali propongono di ridurre al minimo i vincoli contrattuali, fino al limite del contratto individuale, finendo con il negare così ogni principio associazionistico. Questo è un errore gravissimo che tra l’altro ignora la composizione del tessuto produttivo italiano basato sulla piccola e piccolissima impresa.
I sindacati italiani hanno presentato nel mese di febbraio di quest’anno una proposta di nuovo modello contrattuale e di relazioni industriali moderna e adeguata a rispondere alle nuove esigenze di tutto il mondo del lavoro. Su questa siamo pronti a confrontarci con le parti datoriali per trovare una sintesi utile ai lavoratori e alle imprese.
Questa nostra proposta contiene, per la prima volta, una chiara posizione unitaria sul tema della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese.
Un moderno, articolato e variegato sistema di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese sarebbe un volano sul quale far leva per riprendere un processo di crescita del nostro sistema produttivo e della nostra economia.
L’idea che la UIL ha dell’impresa affonda le sue radici nel pensiero mazziniano di “capitale e lavoro nelle stesse mani”. L’idea, tradotta nel XXI secolo, è quella di pensare l’impresa come luogo di incontro tra imprenditori e lavoratori al fine di produrre ricchezza.
In questa direzione un adeguato livello di compartecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda rappresenta un valore aggiunto prezioso e forse irrinunciabile cui imprese e sindacato devono mirare e perseguire congiuntamente.
Impegno, senso di responsabilità, accrescimento professionale in termini di conoscenze e competenze non si inducono con la precarietà e con la instabilità, bensì con la reale partecipazione e con la elevazione culturale e formativa del mondo del lavoro.
È dunque la dimensione della cittadinanza, come costruzione sociale e politica delle condizioni di esistenza della democrazia, che viene progressivamente erosa e delegittimata dall’affermarsi del capitalismo globale.
Nella ridefinizione dell’idea di cittadinanza, un ruolo molto importante deve e può essere svolto dai corpi intermedi: dalle parti sociali, dal sindacato, dalle rappresentanze delle imprese e più in generale dal mondo dell’associazionismo. L’insieme di questi corpi intermedi, che hanno nel nostro Paese una grande vitalità, costituisce uno straordinario valore.
Nelle difficoltà, che ci troviamo ad affrontare, l’Italia ha conservato un grande patrimonio di corpi intermedi. Da questi bisogna ripartire per affermare un’idea dell’associazionismo e della rappresentanza che non sia un’idea corporativa delle relazioni socio-economiche. Noi cerchiamo, anche come sindacato, di portare avanti questa linea e di affermare la nostra capacità di rappresentanza coniugando in termini nuovi gli interessi dei singoli con gli interessi generali del Paese.
*Segretario Confederale UIL