LE FAVOLE ITALIANE E QUELLE ESTERE
di Francesco Pontelli*
Ancora oggi le forze politiche si illudono, e allo stesso tempo illudono i propri elettori, che quanto promesso in campagna elettorale verrà realizzato nel breve e nel medio termine come il
reddito di cittadinanza o di inclusione e la Flat Tax. Tutti stupendi termini assolutamente privi di ogni copertura finanziaria per chiunque conosca l’andamento della spesa pubblica italiana e soprattutto la corsa del debito che cresce a 4463 euro/secondo, quindi circa 11 miliardi al mese, 130 all’anno, ad una velocità esattamente doppia rispetto a quella del 2014 che era di 2210/secondo.
Il raddoppio di questa velocità è determinato dalla assoluta mancanza di controllo della spesa stessa e da una serie di azioni dei governi che hanno aumentato la spesa pubblica (finanziata a debito) per coprire le varie politiche relative al Jobs Act e agli 80 euro: una vera forma di politica vetero feudale. Viceversa, si cominciano a delineare le direttive degli organi internazionali relativamente alla strategia per rimettere sotto controllo la finanza pubblica italiana.
Circa un paio d’anni fa passò assolutamente inosservata e inascoltata un’intervista dell’attuale presidente del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde la quale indicava in una patrimoniale da circa 4/500 miliardi basata essenzialmente su un prelievo del 20% sui conti correnti depositati presso le varie banche oppure attraverso una patrimoniale pesantissima la via per poter riportare sotto controllo il rapporto tra debito e Pil attorno ad un più accettabile 110-115%.
Proprio pochi giorni fa Vitor Gaspar, direttore del dipartimento fiscale del Fmi, ha delineato in una manovra più articolata che si basi sulla riduzione del cuneo fiscale, contemporaneo all’aumento dell’IVA, da sommare ad una “patrimoniale sugli immobili” (proposta attraverso l’aggiornamento dei rendimenti catastali e di conseguenza di un aumento della pressione fiscale sugli immobili) la via per riportare sotto controllo la finanza italiane e soprattutto il debito pubblico in rapporto ad un Pil che cresce la metà di quello spagnolo, tanto per fare un esempio.
Va ricordato tuttavia che il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il reddito percepito dai lavoratori e quanto invece pagato dall’azienda, quindi la sua riduzione appunto, non abbia alcun effetto sul reddito disponibile dei lavoratori, quando invece si potrebbe utilizzare adattandolo alla realtà italiana: come esempio la riduzione delle imposte sugli utili d’impresa come la manovra di Trump che ha innescato una corsa ai premi per i propri dipendenti e nuovi piani di investimento da parte delle aziende statunitensi proprio a causa dell’aumento dei dividendi per le aziende statunitensi.
Entrambe queste strategie italiane e le due del Fondo Monetario Internazionale partono entrambe dalla leva fiscale utilizzata per riequilibrare una spesa incontrollata. Queste presentano dei limiti evidenti e macroscopici. Il primo è che si continua a riversare risorse finanziarie all’interno di un serbatoio contenente la spesa pubblica senza intervenire sull’erogazione della stessa. Un secondo limite, forse ancor più grave di queste strategie, è relativo all’incapacità di affrontare la questione principale relativa al rapporto debito PIL, individuabile nella crescita economica e quindi del PIL.
Viceversa basterebbe una minima analisi approfondita per comprendere come la nostra economia non possa svilupparsi solo attraverso gli incentivi fiscali, come ampiamente dimostrato solo venerdì scorso con la classifica del livello occupazionale delle nazioni europee che ci vede ultimi davanti solo alla Grecia.
A fronte infatti di un aumento negli ultimi anni della spesa e parallelamente del debito anche per la copertura finanziaria degli stessi incentivi fiscali, a febbraio la produzione industriale risulta in flessione ribadendo l’inutilità di queste manovre che non assicurano nessun effetto sull’economia reale come i dati sempre in flessione all’andamento dei consumi dimostrano. Un aumento dei consumi parallelamente ad una conseguente inflazione da crescita della domanda ma inferiore al 2% rappresenta infatti l’unico parametro attraverso il quale i cittadini dimostrano una maggiore o, meglio, la percezione di una migliore situazione economica e soprattutto un atteggiamento positivo relativamente al proprio futuro. Un aumento del PIL non confermato da un aumento di consumi risulta essenzialmente legato a fattori fiscali e viene pagato proprio dai cittadini i quali vedono ridurre il proprio potere economico in relazione all’aumento del livello dei prezzi. Nello specifico italiano poi si è aggiunto l’effetto del ricorso a contratti a tempo determinato che rappresentano circa il 91% .
Un dato che comunque premia ancora una volta la valenza del sistema industriale in quanto i contratti a tempo indeterminato in questo settore rappresentano il 23% del totale. Considerando la media nazionale vicina al 9% logica conseguenza vuole che il settore servizi, punto di riferimento della nomenclatura economica e governativa degli ultimi trent’anni, non utilizzi sostanzialmente mai un contratto a tempo indeterminato.
Tornando all’attuale situazione, paradossalmente la produzione industriale torna ad essere negativa nel mese di febbraio come l’inflazione curva sotto il punto percentuale. In pratica si stanno ricreando le condizioni per una deflazione legata essenzialmente alla minore disponibilità economica dei cittadini (quindi una terribile deflazione da domanda) che non diventano più consumatori ma semplicemente produttori di beni per i quali nessuno può poi essere a sua volta un consumatore. In altre parole, dal 2012 sono passati sei anni assolutamente inutili sotto il profilo della crescita economica in quanto il debito risulta aumentato di oltre 330 miliardi rispetto al novembre 2011 che segnò l’arrivo del governo Monti individuabile come l’inizio di questa disastrosa spirale.
Tornando quindi alle ricette diametralmente opposte dei politici italiani che vorrebbero formare un governo rispetto a quelle del Fondo Monetario che continua a penalizzare la domanda interna, entrambe per rimettere sotto controllo il debito e la spesa pubblica ed offrire uno scenario di sviluppo economico all’Italia, rappresentano la sublimazione di approcci culturalmente insufficienti alla necessità di trovare e di individuare le strategie di crescita economica del nostro Paese.
In tal senso va ricordato infatti che un sistema economico non può essere solo rappresentato dai produttori di beni e servizi (l’offerta) ma anche di consumatori (la domanda) ai quali va restituita una parte della ricchezza prodotta diminuendo la pressione fiscale esercitata in un modo indegno anche dagli enti locali che rappresentano essi stessi una figura non secondaria della disastrosa gestione delle finanze pubbliche, nonostante la supposta vicinanza rispetto al territorio che possono vantare rispetto allo stato centrale.
Pur essendo così lontane queste due ricette, entrambe figlie della fantasia e di un approccio all’economia degno del Monopoli, si assomigliano per il carattere assolutamente fantasioso e per il disprezzo delle persone che dovrebbero subire le conseguenze. La favola italiana dimostra essenzialmente il valore della fantasia, quella del Fondo Monetario invece risulta una tragedia shakespeariana che coinvolge gli spettatori e cittadini.
Sembra incredibile come ancora oggi si continuino a sprecare risorse finanziarie dal 2012, a partire dal governo Monti fino all’attuale governo Gentiloni e anche con il prossimo governo in via di definizione. Purtroppo nulla risulta assolutamente cambiato nelle logiche della determinazione e della individuazione delle priorità da finanziare anche rispetto ai rami secchi da tagliare nella spesa pubblica.
Le favole infatti proposte dagli opposti schieramenti politici dimostrano essenzialmente la più assoluta irresponsabilità di una classe politica talmente miope da far diventare le favole del Fondo Monetario Internazionale le uniche realizzabili sul campo. La controprova oggettiva ed indiscutibile viene rappresentata dal triste sorpasso della Spagna sul nostro Paese in relazione al Pil ed al reddito pro-capite. Un sorpasso che meriterebbe un’analisi molto più approfondita relativa al fallimento di una classe politica dirigente di Confindustria degli ultimi venticinque anni come delle associazioni di categoria e della classe accademica certificata da questo triste ed innegabile disastro. Un’analisi che non viene neppure approcciata non per pudore o altro ma semplicemente per incapacità nella individuazione delle ragioni stesse che l’hanno causata.
*Economista