QUALE FUTURO PER L’ITALIA E PER L’EUROPA? E PER LE NUOVE GENERAZIONI?
di Iperide Ippoliti, Graziano Fioretti, Marina Marozzi
Avvenimenti, scadenze, scenari interni ed internazionali, previsioni: tutto contribuisce, in questa fase, ad addensare nubi fosche sul futuro del nostro Paese e del mondo libero ed occidentale.
Profondi mutamenti, soprattutto non ben governati – nuove tecnologie, crisi ambientali, conflittualità e competitività nei mercati, processi migratori, rapporti ed interdipendenze tra le nazioni – non bastano a giustificare il declino preoccupante di convivenza civile e di democrazia.
Sono gravi le responsabilità e la miopia politica dei sistemi di governo che per tanto tempo hanno retto le sorti dei più importanti paesi dell’ Europa – e che all’ultima ora riscoprono l’importanza degli squilibri sociali crescenti – se è vero, come è vero, che settori sempre più consistenti della popolazione sono orientati a chiedere l’ “ombrello protettivo” di autoritarismi e dittature che la storia vorrebbe cancellate per sempre, e se è vero, come è vero, che il morbo dell’antisemitismo, del terrorismo, del jaihdismo, del nazionalismo e fascismo colpisce fasce sempre più numerose di giovani, anche, purtroppo, nella cosiddetta “sinistra”.
E’ doveroso, allora, tornare a riflettere su questi ritardi e su queste responsabilità, facendo leva sul recupero convinto, sincero e coerentemente operoso, di quei sentimenti e capisaldi di giustizia sociale, indipendenza e libertà che ancora sorreggono lo sforzo estremo dei popoli (quello uckraino in primis) alimentando la “fiaccola” e la speranza mazziniana di “un’alleanza universale dei popoli liberi”.
I bipolarismi, gli estremismi sempre più vincenti – alimentati dalla sete di potere e/o dall’illusione di maggiore stabilità dei governi – spingerebbero anche noi a “schierarci” ed “ omologarci “ ( magari “tappandoci il naso” per certe anomale compagnie e/o vicinanze).
Ci chiediamo, però: qualcuno può forse ancora nutrire dubbi sul nostro antifascismo, sul nostro meridionalismo, sul nostro diniego di un presidenzialismo contrario alla Costituzione ed al ruolo del Parlamento e dei corpi rappresentativi intermedi, sulla nostra storica e riaffermata appartenenza alla “sinistra” ed ai valori della civiltà occidentale? Crediamo di no.
Il problema non è, e non può essere, per noi mettere in dubbio la collocazione storica e politica del repubblicanesimo e dei mazziniani negli schieramenti politici.
Piuttosto a noi è demandato il compito di una rinnovata riflessione e proposta per rivitalizzare il ruolo di una “nuova sinistra” e quello di “composizione positiva e costruttiva“ che è stato, e rimane ancor più oggi, proprio dei movimenti di minoranza e dei “partiti della ragione”. Ovvero di quelle forze e rappresentanze che le contrapposizioni estremiste, in’ Italia e in Europa, rischiano di cancellare in maniera forse irrecuperabile e con esse la vera cultura politica democratica che non può prescindere dalla ricerca di dialogo, di coesione, di partecipazione propedeutica alla capacità di governo di una società moderna e democratica.
In questa assenza di “dialogo” e “volontà di composizione positiva delle conflittualità” consiste, soprattutto oggi, il prezzo politico dell’indebolimento del ruolo delle forze politiche “centrali” dello schieramento, determinato anche da proprie responsabilità ed oggettivi limiti di “presenza” sociale delle stesse.
E’ in questa direzione che il peso crescente dell’astensionismo – proprio soprattutto di quei cittadini che si sentono elettori “traditi” e/o sempre più lontani da una politica rissosa quanto di bassa qualità e rappresentatività – indebolisce le istituzioni rappresentative e fa mancare le energie migliori all’ azione di governo.
Al momento in cui scriviamo non abbiamo ancora del tutto chiari i destini e gli assetti della nuova governance europea; così come non sono del tutto definiti i limiti dell’ ”isolamento” italiano rispetto alle scelte dei vertici dell’Unione determinati dalle contraddizioni proprie della posizione della Presidente del Consiglio, stretta tra la doppia esigenza di avere un incarico di peso nella futura Commissione e di rispondere ad una propria maggioranza fatta di posizioni molto contrastanti.
Gli scenari internazionali, in particolare di Francia e Stati Uniti, alimenteranno ancora a lungo queste ed altre incertezze.
Anche qui e a questo livello, come ha fatto giustamente notare Sabino Cassese, il ruolo del “negoziato” ha avuto e dovrà avere il suo peso sempre più rilevante. Ciò anche per evitare che veti e contrapposizioni finiscano per indebolire assetti politiche e governabilità dell’Europa, all’indomani delle consultazioni di giugno, ed anche per escludere da scelte fondamentali fette consistenti della compagine sociale (in particolare la parte più debole della società).
Mentre la Presidente del Consiglio, forte anche dell’appello responsabile del Presidente della Repubblica, si accinge al difficile compito di far “contare di più” l’Italia nel nuovo consesso, sul piano nazionale le opposizioni affilano le armi per le future, probabili, battaglie referendarie.
Riconfermato che non possiamo avere alcun dubbio nel respingere questa proposta, tanto atipica quanto dannosa, di “premierato”, qualcosa dobbiamo sottolineare riguardo alla cosiddetta autonomia differenziata.
Rileviamo, innanzitutto, la coerenza repubblicana sul tema del “federalismo” e del “regionalismo” riaffermata con nettezza oltre che nella Costituente e da Ugo La Malfa alla vigilia del varo delle Regioni nel 1970 anche in tempi a noi più vicini.
Ricordiamo, al riguardo, le posizioni contrarie sostenute dai senatori Musi e Sbarbati nel 2001 in occasione della “riforma” del Tit. V.
In ogni caso, come veri federalisti, non possiamo restare del tutto chiusi rispetto ad una articolazione regionale che esalti responsabilità e buon uso delle risorse sui territori. Dobbiamo avere ancora una volta il coraggio di rispettare la nostra tradizione di un regionalismo attento alla solidarietà ma anche alla riduzione del peso burocratico dello Stato.
Il regionalismo di Conti e di Zuccarini è quello che punta a limitare le prerogative legislative delle Regioni (assurde e devastanti in alcuni ambiti) e conseguentemente gli “strapoteri” dei Governatori.
Il nostro regionalismo mira, piuttosto, ad esaltare i compiti e le responsabilità dei livelli locali nella traduzione programmatica, operativa e di controllo sul territorio della coerente applicazione sullo stesso delle linee di indirizzo nazionale, nei diversi ambiti settoriali e nel rispetto assoluto di princìpi di legalità e moralità.
A ben riflettere, sta proprio in questa capacità, oltre che nel rifiuto netto dell’accentuazione degli squilibri tra i territori, la vera sfida che tutte le Regioni, ma in particolare quelle del nostro Mezzogiorno, debbano dimostrarsi capaci di saper vincere.