LA GUERRA DEI DAZI
Il doppiopesismo europeo – di Francesco Pontelli*
Nel 2017 gli Stati Uniti hanno presentato un saldo commerciale negativo per oltre 566 miliardi di dollari, di questi 375 miliardi solo con l’economia cinese. Al di là delle ragioni storiche legate soprattutto alla politica di delocalizzazione produttiva seguita in modo cieco e miope fin dagli anni settanta da tutte le amministrazioni precedenti a quella di Trump, risulta evidente che tale asset economico statunitense non sia più sopportabile per l’amministrazione americana. Una delle strategie adottate già all’inizio del 2017 venne individuata anche nelle politiche attive a sostegno di un incremento delle esportazioni. In questo contesto l’Unione Europea decise, sempre nel 2017, di bloccare le importazioni di carne statunitense. Tale blocco (al di là delle polemiche relative all’utilizzo di estrogeni o steroidi negli allevamenti americani) di fatto contraddice in modo evidente la politica tanto dichiarata di apertura dei mercati come dei flussi commerciali e finanziari da parte dell’intera classe dirigente ed economica europea.
In quell’occasione Trump promise, o meglio minacciò, di introdurre dei dazi a seguito dell’impossibilità di esportare la propria carne all’interno dei mercati europei attraverso l’adozione di dazi ed in particolare per l’acqua minerale francese Perrier e l’italiana Vespa. In quel contesto Colaninno, patron della Piaggio, fece spallucce indicando nella possibilità di esportare negli Stati Uniti la Vespa direttamente dal proprio stabilimento del Vietnam aggirando in questo modo i dazi imposti ai prodotti europei. A tal proposito è opportuno ricordare come lo stabilimento della Piaggio in Vietnam sia costato l’eliminazione dei dazi sul riso basmati vietnamita decisa dal governo Renzi nel 2015 per rendere possibile l’investimento in Vietnam. Un modo politico del governo in carica che ha fatto pagare all’eccellenza della risicoltura italiana un investimento di un privato imprenditore in terre straniere.
Successivamente Trump, sempre per seguendo la politica di un riequilibrio dei flussi commerciali, all’inizio 2018 ha annunciato la possibilità di introdurre dei dati per l’alluminio cinese. In questo caso abbiamo assistito ad un levare di scudi da parte del mondo accademico europeo come delle stesse massime autorità politiche dell’Unione e dei grandissimi economisti italiani i quali hanno visto in questa decisione un ulteriore attacco al mercato libero ed una esplicita applicazione della filosofia della nuova amministrazione americana definita con “American First”.
Immediatamente è stata avanzata l’ipotesi, con l’appoggio di tutto il sistema dei media e di tutti i giornali italiani e internazionali, di adottare dei dazi i Levi’s o le moto Harley-Davidson come contromossa politica ed economica. Una reazione scomposta anche perché successiva
all’introduzione di un dazio relativo ad un prodotto cinese che non ha nulla a che fare con l’economia europea. Tale reazione assolutamente fuori luogo dimostra essenzialmente l’incapacità di leggere l’economia globale come indicatrice di un delirio e di un declino culturale che investe la classe dirigente europea ed italiana in particolare.
Il sistema industriale cinese, in particolare quello dell’alluminio come dell’acciaio, sta vivendo un prolungato periodo contrassegnato da una sovracapacità produttiva legata a un rallentamento del mercato interno cinese e alla lunga crisi internazionale. Questa sovracapacità produttiva all’interno di un’economia avanzata come quella europea o statunitense porterebbe ad una politica di riconversione industriale e chiusura dei centri produttivi obsoleti e non più strategici come viene spesso indicato per quel che riguarda la sovracapacità produttiva nel mondo automobilistico.
Viceversa, l’economia cinese ha deciso di inondare il mercato occidentale con dei prodotti assolutamente sottocosto, quindi espressione di un dumping, con l’obiettivo esclusivo di assicurarsi i volumi che permettono il raggiungimento del break even point degli impianti cinesi.
In altre parole, la propria sovracapacità produttiva cinese invece di essere oggetto di una riconversione industriale all’interno del mercato cinese viene scaricata e così fatta pagare ai lavoratori delle imprese dell’alluminio e dell’acciaio i quali si vedono spiazzati da questa concorrenza sleale da parte di una economia che scarica le proprie inefficienze sui mercati mondiali.
La scelta dell’amministrazione statunitense risulta quindi assolutamente giustificata in quanto non possono risultare le aziende ed i lavoratori statunitensi a pagare la sovracapacità produttiva cinese.
Tornando invece alla scomposta reazione europea le considerazioni conseguenti non possono che essere tristi ed amare e riguardano due aspetti sempre di questa reazione ridicola.
La prima riguarda essenzialmente la miopia della stessa Unione la quale ad un’azione finalizzata alla tutela del lavoro statunitense nei confronti di una economia terza (cinese) si inserisce senza neppure risultare coinvolta, minacciando per di più l’introduzione di dazi sui prodotti finiti. Un’azione che penalizzerebbe l’intera filiera produttiva in quanto adottata a valle della stessa e che coinvolgerebbe tutto un sistema industriale che partecipa alla realizzazione di un prodotto complesso, come ormai risultano essere tutte le diverse tipologie di beni di consumo, arrecando perciò un danno economico diffuso ad un sistema industriale e non più ad un singolo settore.
Infine, sempre in relazione all’attività dell’Unione europea, l’ultima considerazione risulta sicuramente quella più grave e che ridicolizza la stessa posizione europea, dimostrandone l’assoluto doppiopesismo.
Risulta sufficiente ricordare infatti come solo cinque (5) mesi fa l’Unione Europea abbia introdotto dei dazi dal 29,2 al 54,9% sull’acciaio cinese per gli stessi motivi che hanno spinto, o meglio stanno spingendo, l’amministrazione americana all’introduzione di dazi sull’alluminio cinese. Quella decisione nell’ottobre 2017 non suscitò alcuna reazione da parte di quei dotti economisti, come dei giornalisti economici o del mondo accademico a tutela dei principi del libero mercato, come invece si registra attualmente in occasione della scelta di Trump. Un comportamento assolutamente ambiguo che coinvolge l’intera classe dirigente politica ed economica europea ed evidenzia ancora una volta come la disonestà intellettuale alberghi tanto all’interno della Unione Europea quanto nella mente di accademici che non ricordano quanto successo solo cinque mesi addietro.
Dazi e principi economici non possono venire utilizzati a proprio uso e consumo e soprattutto per assecondare comportamenti e convenienze politiche. Tutto questo dimostra una disonestà intellettuale, libera espressione di un declino culturale ormai inarrestabile.